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Font per l’editoria

Conoscerli, sceglierli
e utilizzarli

22.05.2023

In editoria esiste un gruppo di font oramai assunti al rango di divinità: Garamond, Baskerville e Palatino. Con anni, che dico, secoli di storia alle spalle, questa trinità rappresenta tutt’ora una certezza a cui si affida la quasi totalità dei libri stampati in Italia. Ma perché sono così amati? Qual è il modo corretto di usarli? Esistono delle alternative?

Scopriamolo insieme, ma non prima di un brevissimo e interessante accenno etimologico: la parola font deriva dall’inglese font, ovvero “fonditura”, che a sua volta deriva dal francese medievale fonte, che significa “fusione”, con riferimento a Giovanni Gutemberg di Magonza, padre della celebre tecnica di stampa che a metà del ’400 rivoluzionò il mondo a colpi di caratteri mobili forgiati, per l’appunto, in metallo tenero fondibile.

Garamond, Baskerville, Palatino

Il Garamond nasce nel XVI secolo grazie al lavoro di Claude Garamond, tipografo francese che per realizzare questo font graziato di stile rinascimentale si ispirò ai precedenti studi di Francesco Griffo, tipografo bolognese inventore del corsivo. In Italia, nel ’58, il bolognese Francesco Simoncini, anch’esso tipografo, ne ritoccò l’aspetto creando il “Simoncini Garamond”, oggi adottato dalla quasi totalità degli editori italiani. Feltrinelli, Sellerio, Rizzoli, Salani, Longanesi, Iperborea, Bompiani, Nottetempo, Guanda… tutti questi importanti nomi dell’editoria italiana hanno scelto per i loro volumi il Simoncini Garamond. Anche Einaudi lo utilizza, ma nella versione “Einaudi Garamond”, peraltro elaborata dallo stesso Francesco Simoncini nel ’56 su commissione di Giulio Einaudi, fondatore dell’omonima casa editrice torinese. Nel 2011 nasce “EB Garamond”, versione libera pubblicata da Georg Duffner – designer austriaco che basò il suo lavoro sul carattere creato dal tipografo francese cinquecentesco Robert Granjon – e oggi disponibile gratuitamente su Google Fonts.

Il Baskerville appare più tardi, nella seconda metà del XVIII secolo, con John Baskerville, calligrafo inglese. Anche lui graziato, ma rispetto al Garamond ha linee più moderne e in Italia è il font adottato dall’importante casa editrice milanese Adelphi che lo utilizza non solo nelle pagine interne, ma anche nell’iconica grafica – ideata nel 1800 dall’illustratore inglese Aubrey Beardsley – delle sue copertine. I contemporanei di Baskerville inizialmente non apprezzarono il suo font, caratterizzato da lettere con forti contrasti e svolazzi più presenti in calligrafia che in tipografia, ma il tempo gli diede ragione. Eccome.

Il Palatino è il più recente dei tre. Font graziato simile al Garamond, nasce nel 1948 con Hermann Zapf, tipografo e calligrafo tedesco, e il suo nome vuole essere un omaggio a Giambattista Palatino, maestro calligrafo italiano del XVI secolo. Basato sui caratteri rinascimentali italiani, con proporzioni ampie e linee verticali piuttosto corte, ispira un senso di grazia e potenza che è apprezzato in tutto il mondo. È utilizzato da Mondadori, il più grande gruppo editoriale italiano.

Ma perché il panorama editoriale predilige nettamente questi tre font, Garamond in testa? La ragione è semplice: sono font storici, perfezionati al punto che definirli di alta qualità è un eufemismo. Eternamente eleganti, sfiorano la perfezione tipografica, sono progettati con maestria in ogni minima grazia e garantiscono una lettura estremamente fluida. E tanto basta.

Questione
di grazie

Garamond, Baskerville e Palatino sono font graziati e non è certo un caso. I font si dividono in graziati, detti anche serif, che in francese significa “grazia”, e bastoni, chiamati sans serif, ovvero “senza grazia”. Le “grazie” sono dei piccoli ganci e piedistalli decorativi posti alle estremità delle lettere che, oltre ad avere una funzione estetica, migliorano la leggibilità del testo perché riducono lo spazio tra le lettere e aiutano il nostro occhio – e il nostro cervello – a legarle tra loro pur mantenendole ben distinte. La lettura risulta fluida, distesa, molto confortevole. Insomma, sono l’ideale per i progetti editoriali.

Ma dobbiamo quindi dedurre che i caratteri bastoni, privi di grazie, siano da bandire in editoria? Sì e no. Per quanto riguarda il testo interno di un volume, in linea di principio sono da preferire i font graziati: proporre al lettore un libro di centinaia e centinaia di pagine stampato, ad esempio, in Futura – che, attenzione, è un font davvero ottimo, ma tuttavia poco adatto a un utilizzo di questo tipo – significherebbe chiedergli uno sforzo di lettura che probabilmente lui non sarà disposto a fare, non per centinaia di pagine. Invece, per quanto riguarda copertina e piccole parti di testo, come titoli, sottotitoli o didascalie, la scelta è decisamente più libera. Libertà assoluta anche quando non stiamo trattando un libro ma bensì qualcosa di più agevole, come una brochure o un volantino, che solitamente ospitano pochi testi che richiedono un minore livello di immersione, e più in generale in qualunque situazione dove le scelte grafico-estetiche hanno priorità sulla funzionalità.

Come scegliere
i font in editoria

Ora, selezionare e utilizzare al meglio un font è una scelta da ponderare con cura. Possiamo decidere di affidarci – almeno per le pagine interne – ai tre font storici già descritti in quanto garanzia di qualità ed efficacia, ma possiamo anche scegliere di adottarne uno diverso e magari più originale. Si può fare, purché la nostra scelta segua sempre e comunque queste 8 (più una) semplici regole… ne va della buona riuscita dell’intero progetto editoriale!

  • SERIF: per i lunghi testi ospitati dalle pagine interne di un libro è meglio prediligere un font graziato, che, come abbiamo già visto, garantisce maggiore leggibilità.
  • SANS SERIF: titoli, sottotitoli, didascalie, note a pié di pagina e altri elementi che gravitano attorno al testo principale (o in copertina) possono essere scritti con un font senza grazie. Anzi, farlo è decisamente una buona idea perché ci permette di combinare visivamente un font graziato – quello del testo portante – con un font bastone e, se l’accostamento è ben riuscito, possiamo ottenere un effetto visivo davvero interessante. Qualche duo generalmente sempre apprezzato? Myriad e Minion, ad esempio, ma anche Gill Sans e Joanna, Bodoni e Futura o Garamond e Univers.
  • SENSO DEL LIMITE: in linea di principio, 2 o 3 è il numero massimo di font che è consigliabile utilizzare nello stesso progetto, editoriale o grafico in genere. Ricordiamolo sempre per evitare caos e spiacevoli scivoloni estetici.
  • IN FAMIGLIA: è buona norma scegliere font che siano inseriti in una famiglia numerosa, ovvero che abbiano più varianti di sé: Light, Regular, Italic, Bold, Extra Bold, Black, ecc. Disporre di queste alternative ci fornisce la preziosa opportunità di differenziare i testi – sulla base del loro ruolo e del peso che vogliamo dargli – utilizzando sempre e solo lo stesso font, senza il bisogno di cercarne per forza un secondo che si abbini efficacemente.
  • DIFFERENZIARE: evitiamo di utilizzare font diversi ma simili. O si resta in famiglia, impiegando differenti varianti del medesimo font, come abbiamo visto nel punto precedente, o si cambia del tutto, pena un fastidioso effetto di disordine.
  • DIVERSI MA NON TROPPO: se scegliere font simili è sbagliato, lo è altrettanto scegliere font eccessivamente diversi. L’effetto “una scarpa e uno zoccolo” è sempre dietro l’angolo! L’armonia scatta tra due font che si collocano alla giusta distanza: né troppo simili, né troppo diversi.
  • DIMENSIONI: ebbene sì, contano. Scherzi a parte, nella scelta di un font è importante considerare anche la dimensione effettiva che avrà nel nostro impaginato. Alcuni font che funzionano benissimo a grandi dimensioni, se rimpiccioliti diventano illeggibili! E accade spesso anche il contrario. Occhio alle dimensioni, quindi.
  • QUALITÀ: font di scarsa o pessima qualità, magari sviluppati a livello amatoriale e poi pubblicati online, sono assolutamente da evitare. Limitiamoci ai font di alta qualità, garanzia di risultati professionali.
  • OBIETTIVO: infine, una regola generale valida in ogni occasione. Al di là della leggibilità, dei giusti abbinamenti, delle dimensioni e della qualità, questioni pur fondamentali, va tenuto sempre a mente qual è il nostro obiettivo. Ogni font ha un mood, un’anima che le sue linee e proporzioni esprimono e pertanto è fondamentale sceglierne uno che si accordi al carattere del nostro progetto, che ci aiuti a trasmettere con efficacia quello che vogliamo comunicare.

Come utilizzare
i font in editoria

Bene, ora che abbiamo visto come si scelgono i font è il momento di passare al come si utilizzano. Già, perché se esistono delle semplici ma efficaci regole da seguire per scegliere il font giusto, allo stesso modo ne esistono per maneggiarli nel migliore dei modi. Le principali sono solo 4, scopriamole insieme.

  • ALLINEAMENTO: in generale, l’allineamento a bandiera a sinistra è una certezza. Perché? Perché rispetto ai testi centrati o giustificati è più facile da leggere in quanto permette di trovare a colpo d’occhio il punto in cui inizia un testo, che sia una frase o un paragrafo. E ricordate quei fastidiosi effetti collaterali come il troppo o il troppo poco spazio che spesso i programmi d’impaginazione adottano in automatico tra le parole di alcune righe di un testo giustificato? Ecco, l’allineamento a bandiera a sinistra è il miglior modo per risolvere il problema alla radice.
  • SPAZI BIANCHI: a prescindere dal font scelto, mantenere uno spazio bianco di respiro tra un paragrafo e l’altro è buona norma. Rende il testo più leggero e arioso, invogliando così il lettore a leggerlo, e inoltre scandisce il ritmo di lettura.
  • INTERLINEA E CRENATURA: in un testo l’interlinea (in inglese leading) è lo spazio tra una riga e l’altra, mentre la crenatura (in inglese kerning) è lo spazio tra le lettere. In base ai font che stiamo utilizzando, è importante impostare un valore d’interlinea e di crenatura adatto, che garantisca un’ottima leggibilità del testo. Comprimere e ammassare le lettere una sull’altra o, al contrario, distanziarle eccessivamente tra loro non è mai una buona idea: ci vuole equilibrio. E l’occhio del lettore ringrazia.
  • STRETCHING: nella grafica, in via generale, tirare e deformare sono parole che provocano contorte smorfie di dolore nei poveri volti degli addetti ai lavori. Sono assolutamente da evitare, anche quando si maneggia un testo: allungare, allargare e distorcere in qualunque modo le lettere di un font è da brutte persone. E noi non siamo brutte persone, vero?